13/01/2021 - 14:46
Cade il tabù: curare chi può salvarsi, come in guerra. Tradotto, per esempio: “Se le risorse sono scarse” scegliere di non mettere in gola un tubo in terapia intensiva o un casco per la respirazione forzata ad un anziano con tanti problemi di salute è peggio o meglio? Riservare il trattamento per chi “trae più beneficio”, cioè chi ha più chance di sopravvivere, è umano? Gli operatori sanitari sarebbero sempre obbligati a fornire la migliore cura per tutti i pazienti, indistintamente. La questione “catturata” nella bozza del nuovo piano pandemico, crea polemica, ma soprattutto questioni etiche, morali, religiose. Chi ha avuto la sfortuna, nella vita, di dover prendere decisioni “pesanti” per altri, sa bene di che cosa stiamo parlando e il peso, se uno la coscienza ce l’ha e lancia segnali, alla fine lo si porta dentro per tutta la vita. Qui, però, si parla di un altro livello: quello medico, professionale, di chi giura di operare per la vita del paziente, al netto dei concetti di accanimento terapeutico, valore della cura, ecc. Per loro la “scelta clinica” si affianca a quella etica. Il dibattito era già aperto prima della pandemia e gli strumenti normativi abbozzati o certi non cancellavano dubbi e drammi. Oggi il covid ha anche questa pessima conseguenza: decidere chi deve vivere. O morire, la linea è sottilissima e sappiamo che è già accaduto: le scelte sono state fatte. Non invidiamo i medici che, ricordiamolo, anche per questo motivo, non sono esenti da depressioni e stress (il “burn out”). Anzi. Sono uomini e donne, con una vita complessa, fatta anche di famiglia, figli, scelte personali. Non dimentichiamolo.
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