LA STANZA DELLE PAROLE SOSPESE
09/08/2023 - 06:59
Marita mi scrive e racconta lo spaccato di vita di un tempo in cui i bambini erano mandati a lavorare come servitori per potersi sfamare, non per guadagnare denaro ma per avere un pezzo di pane. Racconta dei suoi genitori, di suo padre, della vita della sua famiglia in un racconto profondo, denso di emozioni che Marita narra con dovizia di particolari e con cura, un racconto in cui i ricordi emergono nitidi e si intrecciano al profumo dolce di cioccolata che si dissolve nel pianto di lacrime amare.
(Monica Bresciano)
Chissà com’era la vita di mio padre da bambino, come passava le sue giornate, come si sentiva, se era contento ogni tanto. Posso solo provare a immaginare. Ho una foto, solo una, di quando era ancora molto piccolo, insieme ai suoi genitori, i fratelli, le sorelle e ad altre 2 persone, un signore e una signora vestiti meglio degli altri che, penso, fossero i loro padroni di casa. Una vecchia foto con l’immagine un po’ sfocata, ma per me molto preziosa, perchè è l’unica foto di mio padre bambino e perché, a quei tempi, a quell’epoca, le foto erano così rare, specialmente in una povera famiglia di mezzadri. Forse era il 1922 o 23, calcolando l’età che mio padre poteva avere in quel momento, lui che era nato il 9 settembre del 1920 . Nella foto lui è vicin a mia zia Maria, loro due sono i più piccoli; lei lo abbraccia e ha una bambolina in mano. Sembrano un po’ meravigliati e un po’ stupiti, stanno vicini come per farsi coraggio.
Una cosa che so della sua vita da bambino è che quando aveva 5 anni lo hanno mandato a fare il “sërvitù“ in una cascina. Il sërvitù era un piccolo servitore, un servitorello, figlio di gente povera, che veniva mandato in casa di proprietari di cascina e terreni ad aiutare, a lavorare in campagna. Un bambino veniva mandato a fare il sërvitù perché i suoi non avevano abbastanza da sfamare tutta la famiglia; i figli erano tanti e, nella casa in cui andava, si guadagnava, in questo modo, almeno il pane. Perché un bambino che faceva il servitore non era certamente pagato, gli davano qualcosa da mangiare e la sua famiglia aveva una bocca da sfamare in meno.
Anche mia madre era di una famiglia di campagna, ed anche loro da bambini aiutavano nei lavori dei campi e non erano certo coccolati e viziati. Suo padre, che io non ho conosciuto, come del resto non ho conosciuto nessuno dei miei nonni perché sono morti tutti prima che io nascessi, era morto di polmonite quando mia madre aveva 2 anni, nel 1922. Erano 7 fratelli e lei era la più piccola. Anche loro avevano sempre faticato ed avevano avuto una vita difficile, però diversa, perché erano a casa loro, non erano mezzadri, e i campi e gli animali con cui lavoravano erano della loro famiglia. Non avevano dei “padroni”. Mia madre ha detto tante volte che, in quei tempi duri e difficili, loro, comunque, non avevano mai fatto la fame. Nemmeno in tempo di guerra, quando mancava tutto e molti non avevano, veramente, nemmeno il necessario per mangiare. La famiglia di mio padre invece non era proprietaria di niente, i suoi genitori lavoravano a mezzadrìa e nel corso degli anni avevano cambiato diverse cascine, avevano fatto più volte “San Martìn“.
Quando è andato a fare il sërvitù di sicuro lo mandavano al pascolo con le mucche. E non so cos’altro gli facessero fare, ma comunque, il pezzo di pane e il piatto di minestra che gli davano se li doveva guadagnare.
Mio papà aveva raccontato un fatto avvenuto in quel periodo, quando si trovava in quella famiglia. La padrona di casa era una donna piuttosto severa, (anche con lui) ma la giovane nuora aveva un atteggiamento diverso, era più tenera con quel servitorello che, in fondo, anche se erano altri tempi, era pur sempre un bambino di 5 anni. Un mattino, forse era una domenica, sicuramente molto presto, prima che scendesse la suocera, (la madòna, come si diceva da noi), questa giovane nuora aveva chiamato in cucina quel bambino e gli aveva detto: “Ti piace la cioccolata? Questa mattina per colazione te la preparo“. Mio papà ricordava la gioia che aveva provato, sia perché avrebbe gustato la cioccolata forse per la prima volta, e anche per quel gesto di attenzione e di compassione nei suoi confronti da parte di quella giovane donna.
La signora aveva preparato la cioccolata con la polvere di cacao in un pentolino messo sul fuoco, e già mio papà bambino) ne sentiva il buon profumo e pregustava il sapore che di lì a poco avrebbe assaggiato. Posso immaginare osa sarebbe stato bere un po’ di cioccolata calda per un bambino che , non solo probabilmente non l’aveva mai assaggiata, ma che era stato mandato a guadagnarsi il pane a casa d’altri per non far fare la fame a casa propria .
Ma, quando la cioccolata stava per essere versata nella scodella per il piccolo servitore, la donna aveva sentito i passi della suocera che stava scendendo la scala . Tra un attimo sarebbe entrata in cucina, e la nuora sapeva che la padrona non avrebbe certamente approvato né permesso una cosa del genere: un gesto di generosità, di tenerezza, una cioccolata sprecata, addirittura per un sërvitù! Si sarebbe arrabbiata molto anche con lei che doveva comunque essere nei suoi confronti sempre rispettosa e sottomessa e non poteva certo prendersi certe “libertà”.
E così, invece di versare la cioccolata nella scodella, la giovane signora l’aveva rovesciata velocemente nel lavandino mettendoci subito dell’ acqua, perché non si vedesse più niente, versando certamente l’acqua da una brocca o da una bottiglia, perché a quei tempi nelle case non c’era ancora l’acqua corrente.
E mio papà era passato dall’attesa, dalla gioia, dalla consolazione di assaggiare, per una volta, quella bevanda dolce e profumata, alla delusione, al dolore di vedere quella buona cioccolata buttata via in fretta e furia nel lavandino, per non incorrere nelle ire della suocera padrona .
Quando ricordava quel momento, anche da anziano, gli venivano ancora le lacrime.
Marita
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