LA STANZA DELLE PAROLE SOSPESE
L'illustrazione di Giulia Otta e la scrittrice Monica Bresciano
03/10/2023 - 11:55
di Monica Bresciano
Marita mi scrive e condivide nella “Stanza delle parole sospese” un toccante racconto di guerra che suo padre le ha consegnato poco tempo prima di morire; parole impregnate di ricordi dolorosi rimaste in un cassetto per più di dieci anni e che, attraverso l’amore di una figlia hanno trovato la via per essere condivise. Un racconto antico ma così attuale che si ripropone drammatico nel tragico scenario dei nostri mari: i barconi, i gommoni, altri naufragi, altri morti. Di nuovo. Ancora.
«Mia madre mi aveva raccontato, una volta, quando ancora ero molto giovane, la storia del naufragio che mio padre aveva vissuto durante la guerra (la seconda guerra mondiale). Una storia drammatica che lui le aveva raccontato molti anni prima. L’evento più tragico che aveva vissuto in quegli anni.
Poi mio padre non ne aveva più parlato. Non amava raccontare mai niente della guerra.
Di quegli anni lui ricordava, a volte, solo momenti più sereni o… divertenti; ad esempio, i voli in aereo sui Caproni ( gli aerei Caproni) insieme al pilota Dionigi Bovolo, originario di Vicoforte , di cui era amico, diventato all’epoca famoso per la sua spericolatezza, e l’emozione di quando con l’aereo si lanciavano “in picchiata”. In quegli anni a Mondovì c’era l’aeroporto militare. Mio padr era un tecnico specializzato di meccanica del motore e durante i voli doveva sempre essere sull’aereo a fianco del pilota.
All’epoca si raccontava che Bovolo una volta fosse passato “in volo” con l’aereo sotto il ponte della ferrovia a Mondovì. Forse era soltanto una leggenda; anche mio padre pensava che fosse solo una “fantasia”, ma diceva che Dionigi Bovolo era un pilota talmente abile e impavido che avrebbe anche potuto farlo davvero.
Oppure raccontava di quando erano dislocati a Napoli, dove, con altri compagni dell’aeronautica, era andato a vedere alcuni spettacoli al teatro San Carlo. Era rimasto affascinato dalla bellezza, dalla maestosità di quel magnifico teatro. Non aveva mai visto niente di così bello.
Un giorno, all’inizio del 2010, poco tempo prima di morire, più o meno 2 mesi prima, mi ha raccontato di quel naufragio. Eravamo solo io e lui, in cucina; mia madre era mancata tre anni prima. Probabilmente, la notizia di uno dei tanti gommoni carico di migranti provenienti dall’Africa, sprofondato nel mare in quel periodo, gli aveva rievocato quei ricordi. E così, quasi settant’anni dopo, quell’avvenimento tragico, terribile, è riaffiorato di nuovo. Era sempre vivo nella sua memoria , lo ha accompagnato tutta la vita, perché certe cose non si possono dimenticare mai più
E quei nomi erano sempre lì, mai cancellati, mai sepolti. Le motonavi Nettunia, Oceania, Vulcania, il sommergibile Ufolder, (in seguito ho scoperto che si scrive Upholder e che il nome esatto della prima nave è Neptunia). Quando ha pronunciato quel nome, Ufolder” nei suoi occhi c’era ancora il terrore, come se rivivesse quell’incubo. Chissà, in quegli anni, quanti altri momenti orribili aveva vissuto: bombardamenti, privazioni, pericoli, paura, morti… e anche dopo, non è che la vita gli abbia risparmiato situazioni o periodi dolorosi e difficili . Ma niente era stato così sconvolgente come quella notte, come quella volta: il 18 settembre 1941.
Di questo fatto io sapevo poco; nell’estate successiva alla scomparsa di mio papà ho fatto una ricerca su internet. Ricordavo bene i nomi delle navi, del sommergibile e, poco per volta, sono riuscita a ricostruire il fatto in modo abbastanza preciso. Quando ho visto sullo schermo le immagini che documentavano quel momento, ho avuto un’emozione fortissima: la grande motonave Neptunia in navigazione, il momento in cui sta affondando, i superstiti che vengono fatti salire a bordo dell’imbarcazione che li ha tratti in salvo… Quello che per me era stato, fino ad allora, solo un racconto, diventava un momento vissuto, reale e terribile.Mio papà era nell’aeronautica ma, insieme ad altri militari, si trovava a bordo della motonave Neptunia, che faceva parte del convoglio Vulcania, composto da tre navi: Vulcania, la nave caposcorta, Neptunia e Oceania, partite da Taranto il 16 settembre 1941, e dirette a Tripoli, per portare truppe dell’esercito italiano sul fronte libico. Verso le 4 del 18 settembre, un siluro partito dal sommergibile inglese Upholder colpì la Neptunia che riportò danni gravissimi e affondò nel giro di 3 ore. Successivamente sarà colpita anche l’Oceania. I militari imbarcati sulle due navi erano 5818, le vittime furono 384. Mio padre, insieme a tutti gli altri, dopo l’affondamento della nave, rimase per molte ore in mare, sorretto da un “salvagente di sughero”, come diceva lui.Posso solo immaginare lontanamente cosa sia stato vedere quella enorme nave che affonda nel buio, e trovarsi lì, in alto mare… tra i boati, le esplosioni… il risucchio dell’acqua dopo lo sprofondamento, le urla, il terrore, il pensiero che fosse arrivata la fine. Perché si sapeva bene che, per qualunque nave, fermarsi a prestare loro soccorso era un grosso rischio, era addirittura vietato, perché poteva rivelarsi fatale. Da ferme rappresentavano un bersaglio ideale per i sommergibili nemici. Nelle ore successive, fortunatamente, quei naufraghi galleggianti in mare nei giubbotti di salvataggio furono presi a bordo e salvati da 3 dei cacciatorpedinieri di scorta al convoglio scampati ai siluri e condotti in Libia per proseguire le operazioni di guerra. (La campagna di Libia si trascinerà tristemente fino al ’43; in quel periodo parecchie navi italiane dirette in Africa per rifornire le truppe sul fronte libico, sono state affondate nella zona del canale di Sicilia).
Ho pensato diverse volte di scrivere questa storia, la storia di un fatto tragico, dimenticato, di cui non ho mai sentito parlare, accaduto durante la seconda guerra mondiale, in ricordo di mio padre e di tutti quelli che l’hanno vissuto insieme a lui. E in memoria di quelli che in quella circostanza hanno perso la vita.
Quel fatto drammatico che lui non aveva mai potuto dimenticare anche perché, e questa è stata una fortuna che purtroppo non capita a tutti, mio papà è sempre stato perfettamente lucido, fino alla fine dei suoi giorni.
Quell’avvenimento tragico che, a quasi 90 anni, aveva voluto raccontare a me, per la prima volta nella sua vita, pochi giorni prima di morire.
Nel gennaio del 2022, poco tempo dopo aver scritto questo ricordo, ho ritrovato, in una scatola di vecchie foto, una cartolina che avevo già visto altre volte, ma a cui non avevo mai fatto molto caso. Non immaginavo assolutamente a quale fatto fosse collegata. L’aveva spedita mio padre da Napoli, dove si trovava con i suoi compagni di squadriglia (la 118 a) indirizzata alla famiglia Bellino Giuseppe (mio nonno), casa Bonella, Garzegna Mondovì Piazza (Cuneo). I suoi erano mezzadri, e in quel periodo abitavano in quella cascina: la “Bunèla”, in Gherzegna (o Garzegna) . Su quella cartolina mio papà scrive ai suoi: “ “Un ultimo saluto da Napoli”. La data è il 14 - 9 - 1941. Due giorni dopo sarebbero partiti da Taranto sulla Neptunia, diretti in Libia. E’ una cartolina “di guerra”, con soldati e aerei, gli aerei su cui loro volavano… E di fianco c’è la preghiera degli aviatori alla Madonna di Loreto ( protettrice degli aviatori) la preghiera con cui i militari in guerra invocavano la sua protezione. Quando l’aveva spedita, sapeva che sarebbero partiti per la Libia, ma non immaginava la catastrofe a cui stavano per andare incontro.
Mio papà non amava i ricordi di guerra, ma ha sempre conservato questa cartolina. Ora capisco che cosa significava per lui».
Marita
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