L'articolo del 3 aprile 2019 di "Provincia granda"
28/04/2022 - 14:16
di g. sca.
Mercoledì 3 aprile "Provincia granda" pubblicò l'intervista all'imprenditore monregalese Guido Bertola, pochi giorni dopo il rientro in Italia dal Brasile. Rispose ad ogni domanda sull'uccisione di Alban Gropcaj che lui ha definito sempre "un altro figlio". Ora l'uomo è (qui) accusato dalla giustizia brasiliana di essere il mandante di quel delitto. Nega, però, ogni addebito, (qui la replica) ribadendo la sua innocenza.
RIPORTIAMO IL TESTO INTEGRALE DELLA NOSTRA INTERVISTA.
Seduto nel suo ufficio di via Langhe racconta un’esperienza allucinante. È contento di esserne uscito vivo, ha la pena nel cuore per un amico ucciso, ricorda “giorni di prigionia ingiusta, trattato peggio di una bestia, quando mi sono ammalato e credevo di morire, con i miei diritti di persona innocente calpestati senza remore”. Guido Bertola è di nuovo a capo della sua azienda, la “Azzurro” di Mondovì, ma neanche sette giorni addietro non era sicuro di tornare in Italia, tre settimane fa di uscire vivo dalla prigione brasiliana in cui era stato incarcerato solo perchè “testimone di un omicidio”, quello di Alban Gropcaj, operaio della sua azienda, quasi un terzo figlio “adottato” dalla famiglia Bertola. È il giovane, residente a Vicoforte, vittima di un agguato in Brasile, vicino alla città di Fortaleza, lunedì 18 febbraio, in un agguato di rapinatori senza scrupoli che lo hanno ucciso con un colpo di pistola. Aveva 28 anni e lavorava da circa 14 anni per Bertola. L’imprenditore monregalese ha accettato di raccontare la sua terribile esperienza.
Bertola, perchè era in Brasile, a Fortaleza il 18 febbraio scorso?
Per rispondere devo fare un balzo indietro nel tempo. A Natale, mentre eravamo a tavola il 25 dicembre, ho annunciato alla famiglia che volevo far loro un regalo particolare: ho comprato una casa a 30 chilometri da Fortaleza, un posto turistico splendido dove mi sarebbe piaciuto trascorrere le vacanze. A gennaio, con uno dei miei figli ed Alban siamo andati a vederla, riprogrammando un altro viaggio per febbraio. Era necessario fare lavori di ristrutturazione e porre un sistema di telecamere di sicurezza. Per ragioni legate al lavoro in azienda, i miei figli non sono poutti venire e siamo partiti Alban ed io. Un viaggio di piacere, una piccola vacanza associata alle esigenze dei lavori alla casa.
E arriviamo a quella data: che cosa è accaduto?
Era sera. Intorno alle 22,30 siamo usciti dal ristorante italiano (che già conoscevo) “Bell’Italia”. Mi sono messo alla guida dell’auto affittata, Alban si è seduto al posto del passeggero, al mio fianco. Dopo poco mi sono accorto che due persone a bordo di una moto ci seguivano, cercavano di superarci. Mi hanno tagliato la strada e per non investirli mi sono fermato. Sono scesi dalla moto, indossavano il caso. Con le pistole spianate ci hanno intimato di consegnare soldi, orologi, collane, tutto. Avevo il borsello in auto, ho fatto il gesto di prenderlo per consegnarlo, ma uno dei malviventi mi ha preso per un braccio strattonato e gettato a terra. Sono finito con la faccia sulla strada. In un attimo lo stesso uomo ha fatto il giro dell’auto ed è andato verso Alban. Ho sentito tutti e tre gridare, non capivo che cosa dicessero, probabilmente Alban ha reagito perchè si è spaventato per me. I colpi di pistola sono arrivati subito, mentre ancora ero a terra. Non ho visto la scena dell’omicidio.
Che cosa ha fatto poi?
Mi sono subito rialzato, ho visto i due scappare verso la moto. Ho girato introno al’auto e ho scorto Alban a terra, in una pozza di sangue. Gli avevano sparato al capo. Gli ho preso il capo tra le braccia gridando aiuto, chiedendo di chiamare un’ambulanza. È accorsa gente, Alban tremava, cercava di reagire. È morto tra le mie braccia.
I rapinatori?
Sono scappati sulla moto, era buoi, in poco tempo hanno fatto perdere le tracce?
Che cos’hanno preso?
Nulla, hanno abbandonato tutto e sono fuggiti dopo aver sparato.
I soccorsi?
Sono arrivati in fretta, ma per Alban era troppo tardi, l’ho capito subito. Nel giro di 10 minuti sono arrivate decine di mezzi della polizia che ha cominciato ad indagare. Mi hanno chiesto i documenti, ma non si trovava il passaporto di Alban. La mia auto è stata subito sequestrata. Un poliziotto mi ha accompagnato a casa e lì abbiamo trovato i documenti del povero Alby. Mi hanno detto di presentarmi il giorno dopo in ambasciata a Fortaleza.
In che stato d’animo era?
Quella notte non ho dormito, si può immaginare le condizioni psicologiche in cui fossi. Alle 8 del giorno dopo ero negli uffici consolari, poi è arrivata una telefonata: diceva di recarmi in una centrale di polizia (una delegacia). Mi hanno tenuto lì per interrogarmi fino alle 22,30. Ero stressato, stanco, non potevo uscire, l’atmosfera pesante. Quando sono tornato a casa sono crollato.
Arriviamo al 20 febbraio, giusto?
Sì, il giorno in cui è iniziato l’incubo peggiore della mia vita.
Perchè?
Perchè ho cominciato a capire che i miei diritti, la mia disponibilità a raccontare, la mia totale sicurezza di non aver fatto nulla di illegale o di illecito valeva solo per me.
Spieghi
Si presentano i poliziotti a casa con un mandato d’arresto nei miei confronti e perquisiscono la casa da cima a fondo, senza lasciare un centimetro quadrato, distruggendo mobili, intercapedini sporcando dappertutto.
Aspetti, un mandato con quale accusa?
Sospettato di “omicidio qualificato”.
Che cosa vuol dire?
Non ne ho idea. Senza alcun elemento indiziario, senza nulla a cui appigliarsi. Nulla.
Hanno trovato qualcosa di rilevante?
No. Hanno sequestrato passaporto, carte di credito, denaro contante. Il mio telefono era già stato preso in precedenza.
E poi?
Sono stato portato alla centrale di polizia. Lì mi hanno interrogato di nuovo e ribadito che ero in stato di arresto.
È riuscito ad avvisare i parenti di che cosa stava accadendo?
Non ho potuto parlare con nessuno, solo il consolato sapeva.
Come si comportava la polizia?
Facevano domande che facevo fatica a capire nonostante la presenza di un traduttore. Dopo la fotosegnalazione, mi hanno portato in cella. Quella sensazione non la dimenticherò mai. Le grandi chiavi in ferro che girano nei cancelli, le urla dei detenuti, gli odori pesanti. Così com’ero vestito dal mattino sono stato chiuso nello spazio assegnato.
La può descrivere?
È presto detto: un ambiente di 18 metri quadrati con 15 persone già presenti. Il più vecchio avrà avuto 25 anni, era la sezione riservata agli assassini. Non c’erano sedie, non c’era la parvenza di un bagno, Una stanza piena solo di persone e un angolo in cui fare i bisogni.
Quanto tempo è stato in queste condizioni?
Due giorni e due notti.
Che cosa pensava?
Non pensavo a nulla. Pensavo a vivere e ad afferrare qualcosa da mangiare dal piatto unico da cui tutti prendevano con le mani. I detenuti erano gentili con me, forse perchè vedevano che ero più anziano. Una sera c’è stata una perquisizione, a sorpresa. Ci hanno fatto uscire con le mani dietro la testa, hanno girato per la cella, poi ci hanno fatto denudare e rientrare uno ad uno. A me hanno detto di pulire mettendo tutto in un sacco: il degrado, l’umiliazione vera.
Il consolato era presente?
È arrivata una funzionaria che mi ha promesso una sistemazione migliore. Mi hanno caricato su un cellulare e mi hanno trasferito in un altro carcere. La nuova cella era peggio della prima: 6 metri quadrati con 8 persone. L’acqua razionata a due volte al giorno: impossibile anche solo lavarsi il viso. I detenuti fumavano di continuo e bruciavano le bottiglie di plastica, l’aria era irrespirabile. Mi sono ammalato, avevo la febbre alta, tremavo, non ero più in grado di alzarmi dal pavimento. Ricordo che un giorno, mentre mi interrogavano, mi hanno chiesto l’indirizzo di casa, a Monastero di Vasco: non ero più in rado di ricordarlo. Hanno chiamato le guardie, mi hanno trasferito solo 10 metri più in là, in un’altra cella, stessa situazione.
C’è stata un’udienza di convalida dell’arresto?
C’è stata solo un’udienza, di fronte al giudice dopo cinque giorni di cella in quelle condizioni. Sono arrivato in aula in condizioni penose, ma per fortuna, c’era un legale che, intanto, i miei familiari avevano trovato dall’Italia. Immaginavo si dessero da fare in tutti i modi per farmi uscire, ma non potevo comunicare con alcuno. Persino il pubblico ministero ha parlato di “abuso d’ufficio”, il mio legale ha protestato con veemenza.
Che cosa ha deciso il giudice?
Mi hanno rilasciato con la formula “estraneo ai fatti” e mi hanno consentito di tornare a casa. In realtà non era la fine dell’incubo. Continuavo a stare male, ma almeno ero in una casa e non più in cella. Il mio cellulare non mi è stato più restituito. Avevo il fermo di arresto valido per 30 giorni, quindi non avevo ancora il passaporto e non potevo lasciare il Paese.
Quando ha potuto ripartire?
Mercoledì scorso. Giovedì sera ero in Italia, a casa.
I suoi pensieri, ora?
Sono rivolti prima di tutto ad Alban. Ho perso un figlio, era con me da sempre, era il mio uomo di fiducia, un lavoratore eccezionale. Abbiamo assunto tre persone per sostituirlo. Era il responsabile del reparto tagli. I miei figli si sono occupati del rientro della salma in Albania, in contatto con il fratello. Abbiamo pagato tutto noi: era il minimo. Alby era il testimone di nozze di uno dei miei figli. Aveva un tatuaggio nel braccio: un angelo sul mondo e la scritta “Tanto c’è Bert”. Bert sono io.
E poi?
La mia è stata un’esperienza terribile, senza aver fatto nulla, non avevo colpe, non c’era nulla contro di me. Come si può trattare una persona innocente così? La sorte peggiore, però, è toccata ad Alby. In suo ricordo abbiamo costruito un’aiuola con il suo nome composto da lettere in acciaio, forgiate nel suo reparto.
C’è qualcuno che vuole ringraziare?
Sì, la Farnesina, l’onorevole Costa ed il deputato europeo Cirio che si sono interessati al caso; il console onorario Vittorio Ghia (originario di Bra); Simone Bianchino che ha tenuto tutti i contatti dall’Italia, giorno e notte. Tutti i dipendenti ed i collaboratori, i clienti, i fornitori per l’affetto e la comprensione.
Tonerà in Brasile?
Per ora no. Forse un giorno…
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