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LA STANZA DELLE PAROLE SOSPESE - RUBRICA

La lettera di Rosanna: quella delle "domande senza risposta"

Le difficoltà per i figli non riconosciuti alla nascita. vincolati da una legge ingiusta che impedisce di ritrovare le proprie origini

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La scrittrice Monica Bresciano riceve la lettera di Rosanna: quella delle "domande senza risposta"

Illustrazione di Giulia Otta e la scrittrice Monica Bresciano

19/01/2024 - 16:48

Rosanna mi scrive da Reggio Emilia e condivide, nella "stanza delle parole sospese", la sua ricerca delle origini biologiche. Il suo racconto trasuda lacrime e sangue, è uno scritto che porta alla luce le enormi difficoltà per i figli non riconosciuti alla nascita vincolati da una legge ingiusta che impedisce di ritrovare le proprie origini, il proprio inizio. Chi ha letto in questa rubrica la storia di Bruno ricorderà con quali immense fatiche è riuscito ad abbracciare la sua mamma biologica, ma non sempre le storie hanno un lieto fine, anzi…

Auguro a Rosanna tanta forza, tanto coraggio ancora per continuare a sperare. Non si molla e si lotterà senza tregua affinché questa legge ingiusta venga modificata e ogni figlio possa riabbracciare la propria madre, come è giusto che sia.

“Sono nata nel turbolento maggio 1968. Epoca di lotte e rivoluzioni che hanno segnato la storia della nostra società. Sono venuta al mondo in anni connotati da grande energia, voglia di cambiamento e profonde inquietudini. Chissà quali inquietudini devono avere attraversato la mente e il cuore di mia madre nel momento in cui ha deciso di abbandonarmi alla nascita. Chissà quale stravolgimento sia stato per lei rimanere incinta di me. Lo stesso sarà stato per mio padre. E probabilmente per i loro genitori. Chissà quali sono stati i problemi insormontabili che hanno portato a una decisione così grave e drammatica: abbandonare un figlio a un destino ignoto. Sarei proprio curiosa di sapere cos’è successo in quel lontano 1968. Anzi, sono molto più che curiosa. Ho bisogno di saperlo. Ho bisogno di risposte alle tante domande che mi assillano fin da quando ero una ragazzina. Le domande che credo ogni figlio abbandonato si sia posto almeno una volta nella propria vita.

         Chi sono i miei genitori naturali? Da dove provengono? Perché mi hanno abbandonata? Chi mi ha dato il mio nome e per quale motivo è stato scelto proprio questo e non un altro? Ho dei fratelli e delle sorelle? A chi somiglio? Da chi ho ereditato il mio colore dei capelli e degli occhi, la forma del mio viso, del mio naso, delle mie mani? Potrei avere una predisposizione genetica a qualche tipo di malattia?

         Domande che per quasi tutte le persone trovano una facile risposta. Basta chiedere ai propri genitori. Per me invece rappresentano dei quesiti che cadono nel vuoto. Nonostante sia stata adottata piccolissima da genitori amorevoli che non mi hanno mai fatto mancare nulla da nessun punto di vista e che io ho amato con tutta me stessa, ugualmente si è creata in me una voragine dolorosa che non si è colmata con il trascorrere degli anni, ma anzi, al contrario, è divenuta sempre più grande. Così come più grande è diventata la necessità di trovare risposte alle tante domande e di conoscere la storia che ha preceduto la mia venuta al mondo, quindi anche la storia della mia famiglia biologica, delle persone che mi hanno concepita e che poi non hanno voluto o potuto tenermi con loro. È cresciuto insieme a me, negli anni, il bisogno di conoscere l’identità e la provenienza delle persone che mi hanno messo al mondo, perché loro, volenti o nolenti, sono parte di me.

         Per tentare di colmare i vuoti generati dall’abbandono iniziale, nel 2001 ho iniziato la ricerca delle mie origini biologiche. A quell’epoca però la legge 184 del 1983 sulle adozioni non consentiva alle persone adottate di accedere alle informazioni relative ai genitori naturali, se non dopo 100 anni dalla propria nascita. Una cosa assurda, crudele e insensata che determinò il rapido fallimento di quel mio primo tentativo. Nel 2013 la Corte Costituzionale dichiarò finalmente incostituzionale la legge sulle adozioni nella parte che non permetteva di conoscere l’identità della madre biologica e chiese al Parlamento di porre rimedio a questa ingiustizia con una modifica del testo. Forte di questa fondamentale sentenza, dopo più di dieci anni, nel 2015, ricominciai le ricerche presentando nuovamente istanza al Tribunale dei Minorenni della mia regione per ottenere l’accesso ai dati relativi alle mie origini biologiche. Purtroppo l’istanza venne rigettata in quanto il Parlamento non aveva ancora modificato la legge del 1983 e non aveva di conseguenza ancora definito il procedimento per contattare la madre naturale e verificare la volontà di revocare o meno il segreto sulla sua identità. Il mio secondo tentativo di acceso agli atti venne così sospeso in attesa dell’intervento legislativo del Parlamento. La delusione dopo il rigetto dell’istanza fu enorme perché speravo davvero con tutto il cuore di ottenere un risultato positivo. Digerita l’amarezza, recuperata la determinazione a non arrendermi, dopo altri tre anni, nel 2018, trovai la forza di presentare una nuova istanza al Tribunale, contando sul fatto che, nel frattempo, lo stesso Tribunale avesse cambiato orientamento rispetto alla possibilità di interpellare la madre naturale anche in assenza di una legge specifica. Dopo un’attesa durata oltre un anno arrivò inaspettatamente un nuovo rigetto, questa volta motivato dal fatto che non era stato possibile identificare i nominativi dei genitori biologici per accertato allagamento e conseguente inagibilità dell’archivio della struttura sanitaria in cui era avvenuto il parto. Tutti i documenti relativi alla mia nascita erano andati distrutti per colpa di un forte temporale. Incredibile, ma vero.

         La consapevolezza dell’impossibilità di trovare notizie sulle mie origini biologiche è stato per me un colpo tremendo. Non solo la legge mi aveva messo i bastoni tra le ruote per tanti anni, ora ci si metteva pure la sfortuna. Mi sono sentita costretta a rimanere sospesa con le mie domande senza risposta per tutta la vita. Una specie di condanna all’ergastolo senza aver mai commesso alcun delitto. Che altro si poteva fare? In quel momento l’unica strada sembrava quella di rinunciare a proseguire le ricerche. Ma come si può rinunciare a conoscere se stessi? Ho allora intrapreso di recente una nuova ricerca, utilizzando i moderni strumenti che rendono possibile effettuare ricerche genealogiche attraverso l’analisi del proprio Dna e il successivo inserimento dei risultati in grandi banche dati presenti su internet. Grazie al Dna ho scoperto diverse corrispondenze interessanti, cioè persone collegate a me da una parte di patrimonio genetico. I “parenti” più vicini, cugini di 2° o 3° grado, sono risultati residenti soprattutto negli Stati Uniti. Li ho contattati attraverso la piattaforma online delle banche dati chiedendo qualche informazione sui loro antenati di origine italiana. Niente di compromettente, eppure nessuno ha risposto. Il motivo di queste resistenze non l’ho capito ed è stata per me l’ennesima porta che rimaneva chiusa senza possibilità di aprirla in alcun modo. Per fortuna, grazie ai documenti storici presenti su internet, con grande fatica e dopo mesi di studio, sono riuscita forse a risalire all’identità dei miei bisnonni. Ho quindi cercato di approfondire ulteriormente le ricerche contattando le anagrafi dei comuni di provenienza dei miei presunti antenati per conoscere i nomi dei loro discendenti, ma o non hanno trovato documenti utili oppure non hanno nemmeno risposto alle mie mail. Anche questa strada ad un certo punto si è così interrotta e mi sono ritrovata in fondo a un vicolo cieco.

         Dopo tanti sforzi caduti nel vuoto adesso sembra davvero arrivato il momento di dire basta, di smettere di cercare, anche perché le energie sono ormai al lumicino. La fatica è stata tanta, soprattutto quella emotiva, quella del cuore, che prima ha sperato poi si è disperato e poi ha ancora sperato e, infine, è arrivato a un punto di stallo. Non è possibile andare avanti. Non sembra però possibile neanche rinunciare. Lasciare la mia storia senza inizio, essere un libro con la prima pagina strappata e mai riattaccata, è inconcepibile. Resta forse solo da aspettare, sperando che salti fuori qualcosa di nuovo dalle banche dati, un nuovo contatto, un nuovo parente che magari risponderà ai miei messaggi invece di ignorarmi. Ma più passa il tempo e minori diventano le possibilità di trovare notizie utili e, soprattutto, persone ancora in vita. Ci sarebbe un ultimo disperato tentativo che si potrebbe fare: lanciare un appello in televisione e sui giornali. Però questa è un’opzione che sento troppo distante da me. Sono una persona molto riservata e non mi vedo proprio comparire sui mass media. Ciò nonostante i dubbi mi attanagliano. Dovrei farlo? Dovrei continuare a cercare strade nuove da percorrere? O dovrei arrendermi all’evidenza dell’impossibilità di andare avanti e mettermi il cuore in pace? L’unica cosa certa è che rinunciare al mio desiderio, accantonare questo bisogno così profondo di conoscenza, fa molto male.

         Così come fa male sapere che nella mia stessa situazione ci sono tante altre persone che stanno lottando per ricostruire la loro storia e a nessuno, nemmeno a quelli che hanno avuto più fortuna di me e sono riusciti a ricongiungersi con le proprie origini, è stata risparmiata la fatica di dover superare molti ostacoli e grandi fatiche emotive. Ancora oggi in Italia la legge è restrittiva nei confronti delle persone adottate e i Tribunali dei Minorenni spesso non hanno in organico personale con la giusta sensibilità per occuparsi di temi e percorsi così delicati. Credo che sia ora di fare dei passi avanti, di comprendere che la ricerca delle origini biologiche non è un capriccio o una rivalsa, ma è un diritto legato alla necessità fondante che riguarda la definizione della propria identità. Identità che altrimenti rischia di rimanere con uno strappo, una zona d’ombra, una lacuna. E con troppe domande a cui è impossibile dare risposta".

Rosanna

Reggio Emilia, 8 dicembre 2023

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